La gioia di vivere.
Il rapporto uomo-natura ha vissuto tempi migliori. Il Rinascimento poneva al centro dell'Universo l'uomo come la creatura più perfetta nell'armonia cosmica. Tale concezione forniva incondizionate certezze, che si concretizzavano in un'arte visibilmente improntata ad uno spiccato equilibrio contenutistico e formale. Sciaguratamente diversa è la nostra epoca, in cui arroganza, prevaricazione, mistificazione, filosofia di distruzione e di morte sono diventati logica di vita quotidiana.
La rappresentazione del rapporto uomo-natura risente di questi atteggiamenti nevrotici ed esasperati e subisce delle lesioni profonde: La natura non è più amica; è stata irrimediabilmente compromessa quella concordia suprema che trova sublime espressione nella “Festa Campestre” di Giorgione-Tiziano.
A partire da questa visione disincantata e sconsolata della realtà, l’arte non può che esprimere disagio, squilibrio, disarmonia ed incertezza. La gioia di vivere è soltanto un ricordo deturpato dalle lacerazioni della memoria. Questo ciclo di lavori è pervaso da un senso di amara repulsione verso la realtà contemporanea, guardata con freddezza, con distacco; il dramma non ci appartiene più, qualcosa, nell'ingranaggio della Storia, si è spezzato irrimediabilmente: non resta che prenderne atto.
Queste sculture costituiscono un insieme di frammenti che simulano i resti di chissà quale storia ormai perduta, logorata dal tempo inesorabile, che sovrappone le sue crepe all'immagine. Questa storia, privata di ogni drammaticità, viene ad essere bloccata e come "raggelata" nel tempo e nello spazio. E’ come un reperto archeologico che racconta una storia più attraverso i pochi frammenti rimasti e le tante lacerazioni che non attraverso quei pochi resti dell’immagine rappresentata.